Ivo Quartiroli: Prof. Magatti, how would you define techno-nihilistic capitalism, the subject of your book, Libertà immaginaria: Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Imaginary freedom: The illusions of techno-nihilistic capitalism), and what are the differences with the previous stages of capitalism?
Prof. Mauro Magatti: The idea is to give a complete picture of the last 30 years which began with the coming of so-called neo-liberalism in the Anglo-Saxon countries. My book traces and develops the hypothesis of authoritative colleagues, especially the works of Boltanski in France, Bauman in England and Beck in Germany.
The idea is that those 30 years represent something as unitarian, which is detached from the previous stages (which I call “societal capitalism”), and is based not only on the nation state, but on the social and economic effects which the nation state is not able to load and which are usually referred to as “the welfare society.” The fundamental peculiarity of techno-nihilistic capitalism is a kind of new vision of the world, a new weltenshaung, which makes nihilism, traditionally a philosophy which expresses itself in stages of decadence when the established values had to be destroyed, a useful vision for accelerating both economic and technological growth on a planetary scale.
There’s a capitalism which tries to free itself from the cultural background which the national state established. This capitalism defines itself in an alliance between a technique which is supposed to be intangible, in a very thin cultural setting, or even when it is absent and, on the other side, a full availability, a full manipulability of every cultural meaning, which has to be continuously redefined, transformed, and overcome.
Quartiroli: You affirm that technology gives an imaginary freedom, yet many people, based on this very interview, could well say the opposite. I came to know about your book on the Net, sent you an email and you graciously agreed to be interviewed by me. We use Skype for the interview and then I will publish it in my blogs. This gives us a broad freedom. We don’t have any editorial limitation regarding space or length and we don’t have a director to approve our conversation. Online, we don’t even need to publish it before a certain date. And even better, we can reach hundreds or maybe thousands of readers in every corner of the world directly.
Kevin Kelly, one of the most passionate supporters of technology, in his recent article “Expansion of Free Will” says that, “Technology wants choices. The internet, to a greater degree than any technology before it, offers choices and options.” And more, “the technium continues to expand free will as it unrolls into the future. What technology wants is more freedom, expanded free will.” The idea of freedom and expansion of our possibilities is chased by every technological gadget and by every software which interacts with us. All seems very pleasurable, free and fulfilling, so what’s wrong in this expansion of our options?
Magatti: Kelly’s quote is excellent and gets to the point. Techno-nihilistic capitalism, passing the previous stage of societal capitalism, legitimates itself through this increasing of possibilities, which then is connected to the expansion of choices.
Nobody can deny that, in general terms, to go from a condition where we have less opportunities and choices to one where, instead we have the possibility of expanding our doings, in a way expands our freedom. For instance, when we can move easily and quickly from one part of the planet to the other, we get more chances to “do.”
The point is, what happens in a world where the freedom of choices, where this increase of opportunities is being produced with the speed we experience in our personal and collective lives? We should ask ourselves whether this increase has any effect on the very freedom we want to achieve.
A tangible example to make the point: freedom is somehow like the eye. The eye opens to what is in front, is a sense organ somehow indeterminate since it is connected to what is being seen. The fast-increasing choices in the individual experience give us an excess of things we can see, as fundamental changes in our way of seeing, and we are even subject to the powerful systems which are there to put things in front of our eyes.
This brings the risk of becoming people who are driven from the outside: something is being presented as a choice, which is pleasurable and which increases our power and our fulfillment, but with the risk that freedom implodes on itself and that will deliver us completely to something which is external of ourselves.
To this first problem there’s a second one: all of those opportunities presented to us aren’t as real for most people as they are supposed to be. Therefore, the opportunities in front of us are kept only in an illusory and fantasized state and we withdraw them in. To give a banal example, miraculous or even magical solutions, as would be winning 130 million euro on the Lotto which would allow us to do anything we wanted to, at least in our fantasy.
Because of those two reasons, that world with expanded possibilities which is theoretically associated with an increased freedom, then carries the risk of encaging freedom again. In the book I don’t envision a world where we go back in limiting our opportunities, but to ask ourselves about our freedom and understanding if we are as free as we think we are.
Ivo Quartiroli: Prof. Magatti, come definirebbe il capitalismo tecno-nichilista, oggetto del suo libro Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Feltrinelli. 2009) e in cosa differisce dalle fasi precedenti del capitalismo?
Mauro Magatti: Il tentativo è di dare un inquadramento unitario agli ultimi trent’anni che cominciarono con l’avvento nei paesi anglosassoni del cosiddetto neo-liberismo. Il lavoro ricalca, riprende, sviluppa tesi di colleghi autorevoli, in particolare il lavoro di Boltanski in Francia, di Bauman in Inghilterra e di Beck in Germania.
L’idea che questi trent’anni costituiscano qualcosa di unitario, che si distacca molto dal periodo precedente, che io chiamo capitalismo societario, è basato non solo sullo stato nazionale, ma sugli effetti sociali ed economici che lo stato nazionale non è in grado di determinare e che normalmente vanno riferiti all’idea della società del welfare. La caratteristica fondamentale del capitalismo tecno-nichilista è una sorta di nuova visione del mondo, di weltenshaung, che fa del nichilismo, tradizionalmente un impianto filosofico che si esprime nella fasi di decadenza quando si devono distruggere i valori che si sono stabilizzati nel corso del tempo, una visione utile per un’accelerazione della crescita sia economica che tecnologica molto rapida e su scala planetaria.
C’è un capitalismo che cerca di liberarsi dal sustrato culturale che lo stato nazionale aveva depositato. Questo capitalismo cerca invece di mostrarsi in questa alleanza tra una tecnica che come tale si propone di essere astratta, cioé con un vincolo culturale molto contenuto se non addirittura assente e d’altra parte una piena disponibilità, una piena manipolabilità di tutti i significati culturali che devono continuamente essere rimessi in gioco, superati ed essere disposti alla trasformazione.
Quartiroli: Lei afferma che la tecnica conferisce una libertà immaginaria, eppure molti, basandosi su questa stessa intervista potrebbero affermare il contrario. Ho conosciuto il suo libro in rete, le ho scritto una email, lei gentilmente mi ha concesso un’intervista, che effettuiamo tramite skype e che verrà pubblicata sui miei blog. Questo ci dà un’ampia libertà, non abbiamo le costrizioni editoriali di spazio o un direttore che debba approvare la conversazione. Non necessitiamo neanche di una data di scadenza per la pubblicazione online. Ciliegina sulla torta, possiamo raggiungere centinaia o forse migliaia di lettori in ogni parte del mondo in modo diretto.
Kevin Kelly, uno dei più convinti fautori della tecnologia, nel suo recente articolo Expansion of Free Will afferma che “La tecnologia porta alle scelte. Internet, più di qualsiasi altra tecnologia precedente, offre scelte ed opzioni.” E poi “il technium continua ad espandere la libera scelta mentre si scolge nel futuro. Ciò che la tecnologie vuole è più libertà e una libera scelta più ampia”. L’idea di libertà e di espansione delle nostre possibilità viene rincorsa da ogni gadget tecnologico e da ogni software che interagisce con noi. Sembra tutto molto piacevole, libero e soddisfacente, cos’è che non quadra quindi in questa espansione delle nostre possibilità?
Magatti: La citazione di Kelly è ottima e coglie esattamente il punto, e cioé che il capitalismo tecno-nichilista, superando in questo la fase precedente del capitalismo societario, si legittima in modo di questo suo aumento delle opportunità, che poi si lega al tema della scelta.
Indubbiamente nessuno può negare che in termini generali, passare da una situazione in cui abbiamo meno opportunità e meno possibilità di scelta ad una nella quale abbiamo invece la possibilità di fare più cose in un certo senso certamente aumenta la libertà, ad esempio potersi spostare più rapidamente da una parte all’altra del globo ci dà più possibilità di “fare”.
La questione è cosa succede in um mondo dove la libertà di scelta, questo aumento delle opportunità si produce con la velocità che constatiamo nella nostra vita personale e collettiva. Dobbiamo anche chiederci se questo aumento poi non ha conseguenze sulla libertà che vogliamo raggiungere.
Faccio un esempio concreto per capire il punto: la libertà è un po’ come l’occhio. L’occhio si apre a ciò che si pone davanti, è un organo di senso in qualche modo indeterminato e la sua indeterminatezza va messa in relazione a ciò che si vede. L’aumento così accelerato della scelta nell’esperienza individuale ci pone nella condizione di un eccesso di cose a cui possiamo guardare, come cambiamenti fondamentali nel nostro modo di guardare, ma anche addirittura soggetta a quei sistemi molto potenti che sono deputati a metterti davanti agli occhi questo e quest’altro.
Questo porta al rischio che diventiamo esseri a trazione esteriore: qualche cosa viene prospettata come scelta, gradevole e che ci aumenta la nostra potenza, la nostra realizzazione, ma con il rischio che la libertà imploda su se stessa e che ci consegni mani e piedi a qualche cosa che è fuori di sé.
A questo primo problema se ne aggiunge poi un secondo e cioé che tutte queste opportunità che ci vengono presentate, per moltissimi non sono poi così concrete come si pretenderebbe fossero. Quindi le opportunità che vengono presentate rimangono puramente illusorie, fantasticate, e ci si rifugia quindi in soluzioni, per banalizzzare il discorso, miracolistiche o addirittura magiche come potrebbe essere la vincita di 130 milioni al Superenalotto che ci consentirebbe poi di fare tutto ciò che vogliamo, almeno nella fantasia.
Almeno per queste due ragioni, quel mondo con più opportunità che viene che in linea di principio è associato certamente ad un aumento di libertà, rischia poi soprendentemente di ingabbiarla nuovamente. Nel libro il mio tentativo non è quello di immaginare un mondo in cui torniamo a limitare le opportunità ma interrogarci sulla nostra libertà e di capire se siamo così liberi come pensiamo di essere.
Quartiroli: On page 126 of Imaginary Freedom, you write:
…the changeover which happened between the seventies and the eighties went consistently in the direction of the shift of what “need” – still connected to an objective and material idea, in itself saturable, to “desire”, the place of subjectivity and immateriality, as such, non-saturable.
Neil Postman, in Amusing Ourselves to Death, compares Orwell’s 1984 with Huxley’s Brave New World.
As Huxley remarked in Brave New World Revisited, the civil libertarians and rationalists who are ever on the alert to oppose tyranny “failed to take into account man’s almost infinite appetite for distractions.”…In 1984, Huxley added, people are controlled by inflicting pain. In Brave New World, they are controlled by inflicting pleasure. In short, Orwell feared that what we hate will ruin us. Huxley feared that what we love will ruin us.
The shift from need to desire and vice versa, transforming as need the object of infinite desire, is no doubt a practical mechanism for expanding corporate sales, but in what you define as “surplus enjoyment,” which is encouraged by contemporary capitalism, there is the superego aspect too (the set of rules and prohibitions given by the state, by morals, family and by religion), which have been loosened in what you define as techno-nihilistic capitalism.
The liberation from the superego and the quest for pleasure have a positive effect in the release of new life energies and in exploring ourselves and the surrounding world. However, in my opinion, if this, though welcome loosening of rules doesn’t match the development of the essential human qualities (compassion, perseverance, search for truth), we end up living only at our instinctual levels, combined with the mental area, which is overstimulated by technology, without a mediation of the heart. Intelligent beasts. A dangerous combination both for the human relationship and for the environment (many of the desires are fulfilled by goods and products which somehow contribute to environmental disaster).
On the other side, I don’t foresee nor welcome a return to the rules of the “old” capitalism which gave structure, rules and rigid roles. We would hardly give up desires, even though those will be like mirages. The genie is already out of the bottle. What’s your opinion about it?
Magatti: The question is very challenging. First, a one-liner about the fact that Lacan was right regarding Marx. It is not capitalism which creates desires, but capitalism, as a system, is even able to supplant religion, understands the importance of desire in the human experience and give fuel and substance to it. In particular, with the development of the consumer society first and with the communication society later, and finally in what I call techno-nihilistic capitalism, desire is being made pleasure.
The point is not to put the genie back in the bottle, which is impossible; the point is to get desire back not only on an individual level, but on the collective one as well. In the twentieth century, as well as a reaction to the repressive approach of industrial needs, of bureaucracies and of religions seen as a rule system, desires have been rediscovered even in relationships with the body and, this is something which has to be valued and not discarded.
The problem is that techno-nihilistic capitalism again seized desire and constrained it, in the sense that my experience, my sensation is like living in a big cathedral, almost a medieval monastery where you cannot turn your head without being continuously solicited, first on the sensorial level, in reducing our desire to what is being sold by the market or by TV. Desire in this way is being dramatically flattened in a materialistic experience which produces selfish relationships and, on the environmental level, has devastating effects on the environmental balance since, in order to satisfy this desire with no limits, it produces the effects we are experiencing.
Capitalism understood that this desire can be reproduced at will, so it got into it with great ease. I think that, if there is a solution – and this is, of course, very difficult and complex to find – it is in coming back to ask ourselves about desires, which is a mystery for everybody. Of desire, we can on one side be aware of the physical and sensorial aspects and of the deep aspects of our Self in psychoanalytical terms and, on the other side we can consider the metaphysical dimensions too, connected to the sense of mystery, of the infinite, to the meanings which can direct our lives.
We could also try to find a new synthesis between the pulsional element of desire, the deep element which goes back to the development of our personality and, as well, with the intellective element. In the twentieth century, we created this opposition between reason and desire, as if the two would exclude each other. I think instead, that the two can talk to each other, a communication between the pulsional element and reason. Both are important to feed desire, even with different forms and modalities.
Quartiroli: This reminds me of a Buddhist image, where in their tradition there’s the “hungry ghost” realm, greedy ghosts who can never satisfy their hunger, having a huge stomach and a tiny mouth, representing the impossibility of satisfying every desire. In this tradition, the way out from this hellish circle is about loving the truth, substituting compulsion with the desire for truth. In this regard, the metaphysical and spiritual aspects, which take different forms in different traditions, could show us the exit from this dead end, since we cannot go back denying desires but can’t go forward on the road of desires either, because desire, even before being fully satisfied, will devastate the planet and maybe even our psyches.
Magatti: Assuming that the East and the West follow very different paths, though in some aspects are complementary, so both journeys are interesting if they are part of the question. I resume from the last words, “love of truth.” Well, one of the dramatic things which are present on the historical stage we are populating, is the crisis of truth the West has experienced, the crisis of truth in the way it has been built in the previous centuries, up to the point of rejecting the issue of truth itself.
One thing is pretending to know truth and impose it on people; another is the desire for truth and accepting that, even though it is something which is larger than us, is something which we all long for. Wanting to separate any connection between freedom and truth is for sure one of the basic reasons which then progressively leads to what I call techno-nihilistic capitalism. On this basis, I agree fully that those hungry populations which run after their desires are really amazing.
Desire, if we don’t compress it immediately in the material dimension but leave it open on the spiritual dimension, gets a perspective such as this Western destructive effect, which at least can be reduced. Being able to again open this space in Western culture is really quite a big job because the obsessive presence of those ghosts which are conjured by the media system continuously saturate our horizons, and frame our horizons. Then the reopening to the sense of mystery, to the search of the truth seems literally inhibited.
Quartiroli: Since desire is what keeps the entire production machine running, it has to be continuously stimulated. The naked women on magazines’ covers are certainly functional to the selling of the magazines themselves, but are probably even more useful to predisposing the reader toward a desiring attitude which will then be transferred to the advertised products. Depression, perhaps as well as a result of the frustration of unfulfilled desires by most people, is the most widespread contemporary mental health discomfort.
The use of antidepressive and stimulant drugs, legal and illegal, has been increasing over the years. Depression, the real enemy of the market which needs ever-desiring people, has thus found its market in the treatment of depression itself, up to making pathological even those behaviors which are part of the normal human experience, as sadness or simple introversion. Any moment of emptiness has to be filled, if not otherwise, by a drug which operates on our nervous systems. Recently, I was reading that some psychiatrists are suggesting the use of antidepressives for babies 3 years old and less. As you wrote on page 187:
In front of the complexity of reality and on its incessant change, the self has to give up its unity, because that’s nothing else than the infinite series of stimuli which it is exposed to. This pressure is infinitely more powerful than any inwardness.
So, when those stimuli stop, an inner void opens showing a frightening abyss which is avoided as much as possible but which could be the door itself toward reconstructing an identity based on the deep inner perception instead of the external messages. When the techno-nihilist machine stops, who are we, Prof. Magatti?
Magatti: The dramatic condition of the contemporary Self, of the subjectivity, is to find itself scarily empty. The disproportion between the surrounding world and our psyches is so wide that we are always forced to conform to the external instead of investing in our inner lives, instead of loving and preferring what could allow us to grow something inside from our experience and to mark our paths in life. Our paths can be unique only if we accept the limits, as when the painter has the whole color palette in front of him. If he doesn’t decide to choose some and to stay inside the limits of the frame, then there will just be a mess.
One of the contemporary syndromes is the inability of many people, as psychotherapists say, of being able to narratively recount ones own experience, which is made up of individual and separate moments, experiences and situations which we cannot explain why they came out and why we found ourselves in them.
Depression comes when stimuli stop, for instance, with retired or unemployed people, or as also happens because of exhaustion: the physical and psychological effort needed to chase every opportunity is huge. There’s a time in life when we can’t take it any more or we feel inadequate compared to this very demanding model. Depression occurs from lack of sense as well, which produces not only the inability to understand ourselves and others, but on arriving at a point where there’s a growing difficulty in feeling anything in those opportunities and experiences which are more or less amazing if we throw ourselves into them.
So we have a being who manifests as powerful and skilled but actually hides an incredible incapacity to trace his peculiar history and his particular vision of the world. This brings us to the massification of behaviors we dramatically read in statistics where we all behave the same way.
One of the basic points of the book is that what Nietzsche introduced at the end of the nineteenth century is central to understand what’s going on. Our will to power is continuously called up as a fundamental energy to push the individual to match the surrounding environment. However, this will to power is reduced only toward the external and becomes useless toward the deep desire and instinct which we all have about becoming and letting others become.
One of the shocking things about the contemporary reality is that we have many options in many life situations, but we lose the basic, that is how to be and let others be. For a time which boasts of being a model regarding freedom, this is a dramatic outcome.
Quartiroli: A young woman, one of the so-called digital natives, part of the generation which grew with the Net and high technologies, recently wrote to me, referring to the precariousness of everything (work, relationships), that “in this confusion, the Net, paradoxically, offers an anchor.”
The Internet, and especially social networks like Facebook, represent a continuity, as they are a primary object relationship, a very early one. As the dean of the Faculty of Sociology at the Università Cattolica of Milan, you are in a favored observatory about the digital natives. How are relationships redefined and, in particular the Self relationship and the issue of identity?
Magatti: First, I think that being young nowadays – and this has been happening for a number of years – is an experience opposite to the one which the 1968 generation had. Then, there was a world of adults and of institutions which claimed to be coherent, cohesive and to express meanings and values. One could agree and integrate, or one could challenge that world and take a contradictory stand.
Today, the experience is the converse: the world of adults is a confused one, is contradictory, institutions are basically voiceless, and the level of legitimation is very low. The fundamental concern of young people is not to oppose somebody: when a problem is encountered, when a contraposition is met, they turn around and move in a different direction in order to avoid conflicts.
The main problem of today’s youth is to eventually understand whether they subsist as personal entities, even though changeable and contradictory, that is, whether there’s still any passion about searching for a lasting center of gravity around which they can base their lives. This explains why young people often appear lost and dazed regarding the surrounding world. Of course, they are thirsty and they enter life with the enthusiasm and creativity of their age to find supports and places which could possibly help them to realize this circular and complex process of circumnavigating their experience without immediately feeling closed or identified in a specific position.
In this regard, the Net is definitely a tempting tool and, in many aspects it is on the extent that the Net will be able to let experiences, questions and context be born which will have the sensitivity to avoid the ephemeral which characterizes our times. Obviously, the big limitation of the Net is the lack of direct relationships, of face-to-face connections, of the complexities of contextual relationships and its aim of building a network of connections which by definition remain ever-susceptible to being dissolved by the participating subjects. The potentialities which can be found in this setting are immense and have to be balanced with the limits, whereas the interacting person can always participate in the process, keeping a part out of it.
This has always happened even in face-to-face relationships; we do that every day at any time, showing one face and keeping other faces hidden or uninvolved. But perhaps in direct relationships this is more difficult, while on the Net’s relationships this is easier and is an aspect which shouldn’t be underestimated.
Quartiroli: These days I am especially struck by the indifference of the collective answer regarding the tragedy of the immigrants who died in the sea trying to reach our coasts and, in general on themes of sorrow. On compassion, on page 265, you wrote: “Demobilizing values – seen as unnecessary obstacles – and riding the will to power, the techno-nihilistic capitalism erodes the very bases of compassion and the human capacity of taking care.”
I find your assertion true and ask myself about the roots of the lack of compassion. There’s a sentence of Mark Slouka from War of the Worlds (Basic Books, 1995), one of the first generation’s books critical about technology of the Internet era.
The world provides context, and without context, ethical behavior is impossible. It is the physical facts of birth and pain and pleasure and death that force us (enable us) to make value judgments: this is better than that. Nourishment is better than hunger. Compassion is better than torture. Virtual systems, by offering us a reality divorced from the world, from the limits and responsibilities of presence, offer us as well a glimpse into an utterly amoral universe.
The technological setting is basically disembodied, where the body has a marginal role, when not seen as an impediment; likewise, Descartes regarded it as such in his scientific method. This negation of the body has more ancient roots then Descartes’ philosophy which characterized the scientific development of the last centuries. The roots have to be found in the Judeo-Christian tradition which relegated the body to a role far from the divine, when not an instrument of sin. You end the book writing of a coming back to bare faith as an antidote to the loss of sense and you wish for an open and non-dogmatic faith.
Do you think that the body, in this faith, could be brought back to a new worthiness and healthy vitality, instead of letting the body being managed by the society of surplus enjoyment? Christianity, in denying the body, in my opinion also negated the very bases of compassion, which become active in an integrated process of body, empathy, feelings, mind and divine values present in any human being, which we can approach through our body.
Magatti: One of the cultural traces of the twentieth century is this ambiguous rediscovery of the body, against its negation in the previous cultural structures. The problem is that technical development produces a new compression of the corporeality, mainly because techniques need abstraction. In its constituent language and in the kind of conditions created, this has to be over-contextualized and based on the creation of distance.
This created a new reduction of the corporeal element, which seems to weaken especially over face-to-face connections and caring connections and compassion. I think that our era pays a big penalty to an anthropological idea of the human being, the will to power which Nietzsche referred to. This is a very complex power, of course, known only negatively, even though it can be managed with difficulty, but which forgets other anthropological dimensions which are equally fundamental.
In particular, it forgets the experience we make of others through what, according to Levinas, the other’s face conveys to us or, according to Ricoeur, through what he calls the ordinary kindness, that is the human attitude to understanding each other, to find acknowledgment in each other and to depend on each other regarding our needs.
All of those dimensions are based as well on direct physical experience, on face-to-face dimensions which are dramatically negated and seized in social life. This not only damages the individual at the psychological level but also creates a series of problems in interpersonal connections and in the social world we live in. It’s impressive to see that in techno-nihilistic capitalism it seems almost annoying referring to and talking about questions which have to do with justice, poverty, about people who live in worse conditions, about the mutual sensitivity human beings have for each other.
I really think it is a lack of anthropological definition which when translated in an institutional organization and in lifestyles then makes this caring attitude even weaker. I think that they might instead (even on the institutional level) open channels, creating spaces and stimuli where this attitude can grow and compensate and balance the destructive aspects which the will to power can provoke if left to itself.
Quartiroli: Nihilism states the lack of meaning and of value of many aspects of life. From time to time nihilism emerged in the Western world in different forms. You say that contemporary capitalism, even with the important support of technology, tends to fragment, dismantle and melt any meaning and value, leaving only the society of surplus enjoyment.
I ask myself what the roots of nihilism in the Western world are and why we don’t have an existential perspective – we could say metaphysical or spiritual – beyond ideologies and the world of matter.
While some religious traditions, especially the Eastern ones, contemplate that human beings can reach divine spiritual states in this very life and in this very body, in the Christian tradition it is not possible to become like Christ, who is the only son of God and as such at most can be imitated through our virtuous actions, but not reachable as a state of being, at least in the earthly life.
So I’m not surprised that, given the impossibility of reaching the transcendental, and in the face of the intrinsic weakness of ideologies in the given sense to humanity, nihilism can slip in, which cancels everything and one can refer only to the certainties of consumerism and materiality.
Aurobindo said: “Every finite struggle to express an infinite which feels is his very truth.” Lacking the authentic transcendental infinite, the ego craves for it on the mental plane, which is being chased at the technological level, of information, of production, which gives the hope of obtaining divine powers (being in every place at the same time through the Net, extending life with bioengineering, life and death managed by medicine, omniscience with Google and so on). What’s your opinion about it?
Magatti: The point you raised is of crucial importance. It is based on events that are centuries old and mark different civilizations in depth. I won’t, in this instance, take a stand on what I was formed as and where I find myself, which is Christian and Western. However, I find an important convergence about the point where a human being is the intermediary between the finite and infinite and the way which this intermediation is played decides many things in our real lives and in social settings.
In the Christian tradition, transcendence is the ultimate source of desire, the deep drive of human beings. As Severino writes, the whole history of modernity is marked by the pretension of reducing transcendence to immanence through the systematic application of the will to power to the expansion of the freedom of goals.
As far as it is a carrier of material well-being, such movement is designed to create many problems, as history tells us. Here comes the Christian solution which asks to never close this frontier but to always keep the look open on the infinite.
Techno-nihilistic capitalism is a system which wants to be based on an immanence-immanent, subjugated to the systems of power which give a continuous mutation. Even if it introduces itself with no claims, techno-nihilistic capitalism is a view of the world and of history. Somehow, it is a religious system.
Unmasking this pretension is the first step to reopen the discourse about freedom and happiness.
Mauro Magatti. Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Feltrinelli, Milano, 2009)
Quartiroli: A pagina 126 di Libertà immaginaria, lei scrive:
il passaggio che si realizzò tra gli anni settanti e gli anni ottanta andò coerentemente nella direzione dello spostamento del “bisogno” – legato ancora a un’idea oggettiva e materiale e, come tale, saturabile – al “desiderio” – regno della soggettività e dell’immaterialità e, come tale, non saturabile.
Neil Postman, in Amusing Ourselves to Death, confronta 1984 di Orwell con Il mondo nuovo di Huxley.
Come Huxley ha sottlineato in Ritorno al mondo nuovo, chi si occupa di libertà civili e i razionalisti che sono sempre in prima fila nell’opporsi alla tirannia “non hanno preso in considerazione il quasi inifinito appetito umano per le distrazioni”. […] In 1984, Huxley aggiunse, le persone vengono controllate dall’infliggere dolore. Ne Il Mondo Nuovo, esse vengono controllate dall’infliggere piacere. In breve, Orwell temeva che ciò che odiamo ci avrebbbe rivinato, mentre Huxley temeva che ciò che amiamo ci avrebbe rovinato.
Il passaggio dal bisogno al desiderio e viceversa, rendendo bisogno l’oggetto dell’infinito desiderio, è senza dubbio un meccanismo funzionale all’espansione dei fatturati aziendali, ma in quello che lei definisce “plusgodere”, che viene incoraggiato dal capitalismo contemporaneo, c’è anche l’aspetto del superego (l’insieme di regole e proibizioni conferite dallo stato, dalla morale, dalla famiglia e dalla religione), che si è allentato in quello che lei definisce come capitalismo tecno-nichilista.
La liberazione dal superego e la ricerca del piacere hanno un effetto positivo nel rilascio di nuove energie vitali e nell’apertura all’esplorazione di sé e del mondo. Ma a mio parere se questo, pur benvenuto allentamento delle regole non va di pari passo con lo sviluppo delle qualità umane essenziali (compassione, perseveranza, ricerca del vero, ecc…), ci porta a vivere solamente le nostre parti istintive in associazione con la sfera mentale iperstimolata dalla tecnologia, senza una mediazione del cuore. Dei bruti intelligenti. Una combinazione che ritengo pericolosa sia dal punto di vista dei rapporti tra umani che nel settore ambientale (molti dei desideri sono rappresentati da beni e prodotti che in qualche modo contribuiscono al disastro ambientale).
D’altra parte, non vedo e non mi auguro neanche un ritorno alle regole del “vecchio” capitalismo che conferivano struttura, regole e ruoli rigidi. Difficilmente si potrà rinunciare ai desideri, per quanto questi possare essere un miraggio. Il genio è già uscito dalla bottiglia. Qual è la sua visione a proposito?
Magatti. La domanda è molto impegnativa. Intanto una battuta sul fatto che Lacan aveva ragione rispetto a Marx. Non è il capitalismo che si inventa i nostri desideri ma è il capitalismo come sistema, capace di prendere il posto addirittura dalla religione, che ha capito l’importanza del desiderio nell’esperienza umana e gli dà carne, gli dà sostanza, lo rende completo. In particolare, con lo sviluppo della società dei consumi prima e della società della comunicazione poi in quello che chiamo capitalismo tecno-nichilista, il desiderio è reso godimento.
Il punto non è rimettere lo spirito nella lampada, cosa che è assolutamente impossibile, il punto è riappropriarsi non solo a livello individuale ma a livello collettivo del desiderio. Nel Novecento, anche in reazione all’approccio repressivo sia delle esigenze industriali, delle burocrazie pubbliche e della religiosità intesa come sistema di regole, il desiderio è stato sicuramente riscoperto anche in rapporto al corpo e questo è stato sicurametne un punto che non bisogna assolutamente buttare, anzi da valorizzare e apprezzare.
Il problema è che il capitalismo tecno-nichilista lo ha di nuovo sequestrato e “costringe”, nel senso che la mia sensazione, la mia esperienza è come vivere in una grande cattedrale, quasi un convento medioevale in cui non si può girare la testa senza essere continuamente sollecitati, prima di tutto dal punto di vista sensoriale, nel ridurre il nostro desiderio a ciò che è venduto dal mercato o venduto da qualche televisione. Il desiderio in questa maniera è schiacciato drammaticamente in un’esperienza materialistica che produce lo sfruttamente reciproco nelle relazioni e dal punto di vista ambientale ha degli effetti devastanti sugli equilibri perché soddisfare questo desiderio senza limite produce le conseguenze che conosciamo.
Il capitalismo ha capito che questo desiderio può essere riprodotto a volontà e quindi ci è entrato con il massimo della disinvoltura. Io credo che se c’è una soluzione e naturalmente questa è molto difficile e molto complessa da trovare, sta nel tornare a reinterrogarsi su questo tema del desiderio, che è sempre un mistero per tutti noi. Del desiderio da una parte possiamo coglierne gli aspetti fisici, sensoriali e della profondità del nostro Io di taglio psicoanalitico e dall’altra parte anche le dimensioni metafisiche, cioé collegate al senso del mistero, dell’infinito, dei significati di orizzonte che possono orientare la nostra vita.
E anche provare una nuova sintesi tra l’elemento pulsionale, sensoriale del desiderio, l’elemento profondo che risale alla formazione della nostra persona ma dall’altra parte anche con l’elemento intellettivo. Nel Novecento abbiamo creato questa opposizione tra ragione e desiderio, quasi che le due si debbano escludere per forza di cose. Io credo invece che vi possa essere un dialogo, una comunicazione tra l’aspetto pulsionale e quello della ragione e che tutti e due siano elementi importanti per alimentare il desiderio, anche se con forme e con modi differenti.
Quartiroli: Questo mi ricorda un’immagine del Buddismo, dove nella loro tradizione vi è il reame dei cosiddetti “hungry ghost”, fantasmi famelici che non riescono mai a soddisfare il loro appetito, avendo uno stomaco enorme e una bocca piccolissima, rappresentando l’impossibilità di soddisfare tutti i desideri. In questa tradizione, il modo per uscire da questo chiamiamolo girone infernale, è l’amore per la verità, cioé sostituire la compulsione con il desiderio del vero. In questo senso è quell’aspetto metafisico e spirituale, che nella diverse tradizioni si attuano in diverse forme, che potrebbe farci uscire da questo vicolo cieco, per cui non possiamo tornare indietro negando i desideri, ma neanche andare avanti sulla strada del desiderio perché il desiderio, prima di essere soddisfatto in pieno, devasterà il pianeta e forse anche la nostra psiche.
Magatti: Premesso che Oriente ed Occidente hanno percorsi molto diversi, in alcuni aspetti complementari, quindi le strade sono entrambe interessanti se colgono parte della questione. Mi riallaccio a quest’ultima battuta, cioé l’amore per la verità. Ecco, una delle cose penso drammatiche che stanno dietro la fase storica che stiamo vivendo è certamente la crisi della verità che l’Occidente ha avuto, della verità per come l’hanno costruita i secoli precedenti, fino al rifiuto anche di porre la questione della verità.
Un conto è pretendere di avere la verità e pretendere di imporla a tutti gli altri; un conto è il desiderio della verità e accettare che essa è una misura che in qualche modo ci supera ma verso la quale tutti quanti tendiamo. Voler separare totalmente qualunque nesso tra libertà e verità è sicuramente per me una della ragioni di fondo che portano poi progressivamente a quello che chiamo capitalismo tecno-nichilista. Da questo punto di vista sono perfettamente d’accordo che queste popolazioni fameliche che corrono dietro al loro desiderio reso godimento fanno davvero impressione.
Il desiderio, se non lo schiacciamo immediatamente sulla dimensione materiale ma lo si lascia aperto alla dimensione spirituale, ha un’orizzonte tale per cui questa conseguenza distruttiva che nell’occidente tende a produrre, se non altro si attenua e si riduce.
Riuscire a riaprire questo spazio nella cultura occidentale oggi è veramente un’impresa titanica anche perché l’ossessiva presenza di questo ambiente di fantasmi che è costituito dal sistema mediale è come se riempisse continuamente tutto il nostro orizzonte, e contenesse il nostro orizzonte. Quindi la riapertura al senso del mistero, alla ricerca della verità mi sembra letteralmente impedita.
Quartiroli: Poiché il desiderio è ciò che tiene in piedi la grande macchina di produzione, esso deve essere stimolato constantemente. I nudi sulle copertine delle riviste sono sì anche funzionali alla vendita della rivista stessa, ma soprattutto forse lo sono per predisporre il lettore ad un atteggiamento desiderante che poi riverserà anche sui prodotti pubblicizzati al suo interno. La depressione, forse anche come conseguenza della frustrazione di un desiderio che non potrà essere soddisfatto da parte dei più, è il disagio mentale contemporaneo più diffuso.
L’uso degli antidepressivi e degli stimolanti di ogni genere, legali ed illegali, è in continua crescita da decenni. La depressione, che è la vera nemica del mercato che necessita di individui sempre desideranti, ha così trovato il suo mercato nel trattamento della stessa, arrivando a patologizzare anche comportamenti che fanno parte della normale esperienza umana, quali la tristezza o la semplice introversione. Qualunque momento di vuoto e di silenzio va riempito, se non altro, da un farmaco che agisce sul nostro sistema nervoso. In questi giorni leggevo addirittura di psichiatri che suggeriscono l’uso di antidepressivi per bimbi inferiori ai 3 anni. Come lei scrive a pagina 187,
Davanti alla complessità della realtà e al suo continuo mutare, il sé deve rinunciare alla sua unità, poiché esso altro non è che l’infinita catena di stimoli a cui viene esposto. Questa pressione è infinitamente più potente di qualunque interiorità.
Quindi nel momento in cui questi stimoli si fermano si apre un vuoto interiore, una voragine che sgomenta, che si cerca di evitare a tutti i costi ma che potrebbe essere essa stessa la porta verso la ricostruzione di un’identità basata sul proprio sentire profondo invece che dai messaggi che provengono dall’esterno. Quando la macchina del capitalismo tecno-nichilista si ferma, chi siamo dott. Magatti?
Magatti: La cosa drammatica dell’Io contemporaneo, della soggettività è di ritrovarsi paurosamente vuota. Questa sproporzione che c’è tra il mondo circostante è così strabordante rispetto alla nostra psiche, che ci costringe continuamente a cercare di adeguarci piuttosto che investire sulla nostra interiorità, piuttosto che amare e preferire ciò che consente di depositare dentro un processo di personalizzazione l’esperienza che facciamo e di tracciare la nostra strada. Strada che certamente può essere unica solo a condizione che ne accettiamo i limiti, come quando il pittore ha davanti tutta la tavolozza dei colori. Se non si decide di sceglierne alcuni e di stare dentro i limiti della cornice, alla fine si rischia di fare un pasticcio.
E’ una delle sindromi contemporanee, l’incapacità di molte persone, come ci dicono gli psicoterapeuti, di poter raccontare narrativamente della propria esperienza, che è fatta di momenti, esperienze, situazioni singole e separate che nemmeno ci sappiamo spiegare perché sono saltate fuori e perché ci siamo ritrovati in esse.
La depressione interviene sia quando gli stimoli vengono meno, pensiamo ai pensionati tanto per fare un esempio, o da chi esca dal mercato del lavoro, o avviene per sfinimento: la fatica fisica e psichica che ci è richiesta per correre dietro a tutte queste opportunità è immensa. Viene un momento nella vita in cui può essere che non ce la facciamo più o ci sentiamo inadeguati rispetto a questo modello che è molto esigente. la depressione avviene anche per mancanza di senso, che produce non solo l’incapacità di capirci, di comprenderci e di capire e comprendere gli altri, ma ad un certo punto anche nella crescente difficoltà nel sentire qualche cosa in queste opportunità ed esperienze più o meno meravigliose nelle quali ci buttiamo.
Dunque abbiamo un essere che si dimostra potente e capace ma che in realtà nasconde un’incapacità incredibile nel tracciare la sua particolare storia, la sua particolare visione del mondo. Questo porta anche a quella massificazione nei comportamenti che vediamo così drammaticamente risultare nelle statistiche dove tutti noi ci comportiamo in maniera simile.
Una delle tesi di fondo del libro è che il discorso che Nietzsche ha introdotto alla fine dell’Ottocento sulla volontà di potenza è oggi un elemento centrale per capire quello che succede. La nostra volontà di potenza viene continuamente evocata come un’energia fondamentale per spingere l’individuo ad essere adeguato al mondo circostante. Solo che questa volontà di potenza di riduce ad essere totalmente diretta all’esterno e rivelarsi del tutto fittizia rispetto a quel desiderio e quell’istinto profondo che tutti noi abbiamo di esistere e di fare esistere.
Una delle cose impressionanti che mi sembra di leggere nella realtà contemporanea è che noi in molte situazioni della vita possiamo fare tante cose, abbiamo tante opportunità ma perdiamo la cosa fondamentale, cioé quella di essere e di fare essere e questo. Per un tempo che si vanta di essere il modello dal punto di vista delle libertà è un’esito drammatico.
Quartiroli: Una giovane donna, una cosiddetta nativa digitale, facente parte della generazione cresciuta con la Rete e con le tecnologie avanzate, recentemente mi ha scritto, riferendosi alla precarietà del tutto (lavoro, relazioni d’amore) che “in questo smarrimento la rete con ciò che offre paradossalmente è come un punto fermo.”
Internet, e in particolare i social network quali Facebook, rappresentano quindi quella continuità, come fossero un oggetto di relazione primario, antico. Come preside della facoltà di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano, lei si trova anche in un osservatorio privilegiato sui nativi digitali. Come vengono ridefiniti i rapporti con gli altri e in particolare il rapporto con se stessi insieme alla questione dell’identità?
Magatti: Intanto penso che essere giovani oggi, e questo avviene già da diversi anni, è un’esperienza esattamente opposta a quella che ha vissuto la generazione del ’68. Là c’era un mondo degli adulti e un mondo delle istituzioni che pretendeva di essere coerente, di essere coeso, di esprimere dei significati e dei valori. Si poteva essere d’accordo e integrarsi o si poteva contestare quel mondo e prendere una posizione contrappositiva.
Oggi invece l’esperienza del crescere è un’esperienza completamente diversa: il mondo degli adulti è un mondo molto confuso, contraddittorio, le istituzioni sono sostanzialmente afone e il livello di legittimazione bassissimo. Il problema fondamentale di chi cresce non è di contrapporsi a qualcuno, perché non ci si contrappone proprio a nessuno, semmai il movimento fondamentale è quello dello spostarsi, cioé si incontra un problema, si incontra una contrapposizione, si girano le spalle e ci si muove in un’altra direzione e si evita il conflitto.
Il problema principale dei ragazzi oggi è quello di capire eventualmente se si sussiste come entità personali, seppur mobili e contraddittorie, cioé se appassiona ancora la ricerca di un qualche centro di gravità permanente attorno a cui possiamo basare la nostra vita. Questo spiega perché i giovani appaiono spesso smarriti e spesso sono come attoniti rispetto al mondo circostante. Naturalmente sono assetati e si buttano con l’entusiamo e la creatività che caratterizza quell’età per trovare dei punti di appoggio, dei luoghi in cui sia possibile realizzare questo processo circolare e complesso di circumnavigazione della propria esperienza senza sentirsi immediatamente chiusi o sentirsi identificati in una posizione particolare.
Da questo punto di vista la rete sicuramente si prospetta come uno strumento allettante e per molti aspetti lo è e lo può essere nella misura in cui dentro la rete si sarà in grado di far nascere esperienze, questioni, contesti che abbiano come sensibilità almeno quella di sfuggire all’effimero che caratterizza questo tempo. Ovviamente il limite grande della rete è la mancanza della relazione diretta, della relazione faccia a faccia, della complessità della relazione contestuale e in qualche modo il suo limite è quello di costruire una rete di relazioni che rimangono per definizione sempre suscettibili di essere sciolte da parte del soggetto che partecipa.
Le potenzialità che si possono ritrovate in questo ambiente sono sicuramente elevate. Queste possibilità vanno compensate con i limiti laddove la persona che interagisce può sempre partecipare a un processo mantenendo un piede fuori da essa.
Questo è sempre successo nelle relazioni anche faccia a faccia, lo facciamo tutti i giorni ogni volta che mostriamo una faccia e ne lasciamo altre nascoste o non impegnate. Però forse nelle relazioni dirette questa operazione è più difficile, mentre nelle relazioni di rete è più semplice e questo è un aspetto che credo non dev’essere sottovalutato.
Quartiroli: In questi giorni mi ha particolarmente impressionato l’indifferenza delle risposte collettive rispetto alla tragedia degli immigrati morti in mare cercando di raggiungere le nostre coste e in generale sui temi del dolore. Sulla compassione, a pagina 265 lei scrive:
Smobilitando i valori – visti come inutili impedimenti – e cavalcando la volontà di potenza, il capitalismo tecno-nichilista erode le basi della compassione e della capacità tipicamente umana del prendersi cura.
Trovo la sua affermazione vera e mi interrogo sulla radice della mancanza di compassione. Riporto qui una frase di Mark Slouka tratta da War of the Worlds (Basic Books, 1995), uno dei libri facenti parte della prima ondata di critica alla tecnologia dell’era Internet:
Il mondo fornisce un contesto, e senza un contesto, il comportamento etico è impossibile. Sono i fatti fisici della nascita e del dolore e del piacere e della morte che ci forzano e ci consentono di effettuare dei giudizi di valore: questo è meglio di quello. Il nurtimento è meglio della fame. La compassione è meglio della tortura. I sistemi virtuali, offrendoci una realtà separata dal mondo, dai limiti e dalla responsabilità della presenza, ci fanno intravedere un universo piuttosto amorale.
L’ambiente tecnologico è di base disincarnato, dove il corpo ha un ruolo marginale, se non addirittura visto come un impedimento, analogamente a come lo considerava Cartesio nel suo metodo scientifico. Questa negazione del corpo ha radici più antiche della filosofia cartesiana che ha caratterizzato lo sviluppo scientifico degli ultimi secoli. Esso ha radici nella tradizione Giudaico-Cristiana che ha relegato il corpo in un ruolo lontano dal divino quando non fautore di peccato. Lei termina il libro parlando di ritorno alla nuda fede come antidoto alla perdita di senso ed auspica una fede aperta e non dogmatica.
Ritiene che il corpo possa essere riportato a nuova dignità e sana vitalità in questa fede, invece che lasciarlo solamente in gestione alla società del “plusgodere”? La cristianità, negando il corpo, ha negato a mio parere le basi stesse della compassione, che si attiva come processo integrato di corpo, empatia, emozioni, mente e valori divini presenti in ogni essere umano, che possiamo contattare tramite il nostro corpo.
Magatti: Una delle tracce culturali del Novecento è questa ambigua, ambivalente riscoperta del corpo, contro anche la sua negazione nelle strutture culturali precedenti. Il problema è che lo sviluppo tecnico produce una nuova compressione della corporeità, fondamentalmente perché la tecnica ha bisogno di astrazione. Nel suo linguaggio costitutivo e nel tipo di condizioni che crea, queste devono essere sovracontestuali e basate sulla creazione della distanza.
Questo genera una nuova riduzione dell’elemento corporeo, che sembra indebolirsi in particolare per quanto riguarda la relazione, quella faccia a faccia, e poi la relazione d’aiuto, la compassione. Io credo che il nostro tempo paga il grande scotto ad una concezione antropologica che coglie in maniera molto precisa una dimensione dell’essere umano, quella volontà di potenza a cui faceva riferimento Nietzsche, che è una forza molto complessa, naturalmente non solo negativa ma di difficile gestione, ma dimentica altre dimensioni antropologiche che sono ugualmente fondamentali.
In particolare dimentica l’esperienza che noi facciamo degli altri attraverso quello che il volto d’altri ci esprime secondo Levinas oppure secondo Ricoeur attraverso quella che lui chiama benevolenza originaria, cioé questa attitudine dell’essere umano a intendersi, a trovare riconoscimento nell’altro e a prendersi carico reciprocamente delle proprie necessità.
Tutte queste dimensioni si fondano anche su un’esperienza corporea diretta, faccia a faccia, e sono invece dimensioni che nella vita sociale organizzata vengono drammaticamente negate e sequestrate. Questo crea non solo dei danni dal punto di vista della psicologia individuale ma crea anche tutta una serie di problemi nelle relazioni interpersonali e nei mondi sociali che viviamo. E’ impressionante vedere che nel capitalismo tecno-nichilista sembra quasi fastidioso fare riferimento, parlare, di questioni che riguardano i temi della giustizia, della povertà, di chi sta peggio, ai temi legati a questa sensibilità che gli uomini hanno reciprocamente.
Credo davvero sia un difetto di definizione antropologica che si traduce poi in assetti istituzionali e in modi di vita che ulteriormente indeboliscono questa attitudine. Da questo punto di vista a me sembra che una delle strade che anche istituzionalmente vanno battute è invece quella di dar credito a questa attitudine e di creare spazi, occasioni, conduzioni, stimoli, perché tutto questo non sia dimenticato, negato, messo da parte, ma che possa invece esprimersi, compensare ed equilibrare gli aspetti distruttivi che la volontà di potenza lasciata a se stessa rischia di determinare.
Quartiroli: Il nichilismo afferma la mancanza di significato e di valore di molti aspetti della vita. Il nichilismo emerge di tanto in tanto emerge nelle società occidentali in diverse forme. Lei afferma che il capitalismo contemporaneo, anche con l’importante ausilio della tecnologia, tende a frammentare, smontare e sciogliere qualsiasi significato di valore, lasciando solo la società del plusgodere.
Mi interrogo sulle radici del nichilismo nella società occidentale e del perché spesso non si vede una prospettiva esistenziale, chiamiamola metafisica o spirituale, oltre le ideologie e il mondo della materia.
Mentre alcune tradizioni religiose in particolare orientali prevedono per l’essere umano il raggiungimento di stati spirituali divini in questa vita e in questo corpo, nella tradizione Cristiana non si può diventare come Cristo, che è l’unico figlio di Dio e come tale, può essere al più imitabile tramite le nostre azioni virtuose, ma non raggiungibile come stato dell’essere, perlomeno nella vita terrena.
Non mi stupisce che, di fronte all’impossibilità di raggiungere il trascendente, e di fronte all’intrinseca debolezza delle ideologie nel dare senso all’umanità, si insinui il nichilismo che annulla tutto quanto e ci si appoggia alle sole certezze del consumo e della materialità.
Umanamente incapace di attendere un ipotetico Regno dei Cieli, l’essere richiede un qui e ora che gli è negato. Forse la volontà di potenza Nietzsche è in realtà il bisogno di sentirsi infiniti, che la società dei consumi rincorre come un miraggio sul piano materiale.
Aurobindo scriveva: “Ogni finito si sforza d’esprimere un infinito che sente essere la sua reale verità”. In mancanza dell'”autentico” infinito trascendente, l’ego brama l’infinito sul piano mentale, che si attua a livello delle tecnologie, dell’informazione, della produzione, che danno la speranza di ottenere poteri divini (poter essere in ogni luogo contemporaneamente in rete, prolungamento della vita con la bioingegneria, gestione medica della vita e della morte, onniscienza con Google. ecc…). Qual è il suo parere a proposito?
Magatti: Il punto sollevato è di portata capitale tanto da stare alla base di vicende secolari, che segnano nel profondo le diverse civilizzazioni. Non intendo, in questa sede, prender posizione per il punto di vista nel quale sono stato educato e in cui mi ritrovo, che è quello Cristiano e occidentale. Su un punto però trovo una convergenza importante, e cioè che l’essere umano è il mediatore tra finito e infinito e il modo in cui tale mediazione viene giocata decide molte cose nella nostra vita concreta e negli assetti della vita sociale.
Nella tradizione cristiana, la trascendenza costituisce la fonte ultima del desiderio, la spinta profonda che muove l’essere umano. Come scrive Severino, tutta la storia della modernità è segnata dalla pretesa di ridurre tale trascendenza all’immanenza, mediante l’applicazione sistematica della volontà di potenza all’ampliamento della libertà di scopo.
Per quanto apportatrice di benessere materiale, un tale movimento è destinato a creare molti problemi, come la storia che abbiamo alle spalle ci insegna. Ecco allora la soluzione cristiana che chiede di non chiudere mai questa frontiera ma di tenere sempre aperto lo sguardo sull’infinito.
Il capitalismo tecno-nichilista è un sistema che vuole basarsi su una immanenza-immanente, asservita ai sistemi di potere che imprimono un cambiamento continuo. Anche se si presenta senza pretese, il capitalismo tecno-nichilista è una visione del mondo e della storia, In qualche modo è un sistema religioso.
Smascherare questa pretesa è il primo passo per la riapertura del discorso sulla libertà e sulla felicità.
Mauro Magatti. Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista (Feltrinelli, Milano, 2009)